Non è (solo) la mancanza di un modello “opportuno”, abilitato alla ricostruzione dei territori, dopo qualsiasi terremoto futuro; ovvero non è il “darsi un metodo” buono nel tempo. Non è (solo) la semplificazione della burocrazia, utile a ricostruire gli edifici, mancata per anni e giunta tardiva, ora nel sisma in Centro Italia. È l’assenza di due sostanziali fattori, a rendere questo Paese “inetto” nelle sue ricostruzioni post-sisma.
Nel post terremoto 2016, quanto nell’attuale emergenza Covid-19 mancano, alla politica italiana: visione e ri-pianificazione dell’economia, intesa come “capacità di ri-mettere a frutto le risorse del territorio”. Ricalibrandole allo scenario della crisi. Si parla di re-immetterle entro un circolo di nuove azioni, trovando un nuovo assetto ed equilibrio, sistemico. Perchè dopo il disastro, chi era ed è radicato sul territorio possa essere avviato alla ricostituzione del tessuto sociale. Se non pienamente, quantomeno a “giri bassi”. Ora più che mai, nel cratere dell’Italia centrale, “economia” è da intendersi come la preziosa rete di alleanze umane, nel loro personale e collettivo potenziale di ripensare lo scenario lavorativo.
Quel valore del “saper fare”, che rilega gesti e persone ai posti, è disgregato. Ciascun agricoltore, o piccola realtà della filiera alimentare locale (e non solo di questo settore) viene piuttosto indirettamente invitato/a a ragionare, ripensarsi da solo/a. Il territorio non tutela più le risorse del territorio stesso, le disperde come polvere entro quella che si potrebbe definire un’economia del tradimento. Il cittadino comune, divenuto “terremotato” si trova spesso con “almeno” casa inagibile e un’intera vita da riorganizzare, fra lavoro e famiglia, completamente in solitaria.

Non sappiamo ricostruire come Paese il paese stesso, qui dopo un terremoto, perchè la ricostruzione delle case è completamente separata dalla ricostruzione socio-economica del territorio. Sono polarizzati, il cemento da una parte e la vita delle persone, l’economia dei luoghi dall’altra.
Aspettano, cittadini e lavoro, che “qualcuno” abbia il coraggio di rimettere in rete le imprese, i prodotti locali. Più che donazioni e aiuti danarosi, servirebbe il regalo di una buona strategia economica post-disastro. A dire il vero, comunque, alcune realtà territoriali si organizzano da sè e lo fanno molto bene. In gruppo si rimboccano le maniche, ripartono fra le macerie cercando di ridarsi un piano da seguire. A volte la riorganizzazione del “fare territoriale” si rigenera attraverso i Gruppi di Acquisto solidale (soprattutto verso Lazio e Lombardia).

Per altre piccole realtà locali il riassetto delle attività avviene entro le nuove strutture in essere dal 2018 circa, accorpamenti transitori come La Compagnia dei Maestri Artigiani di Visso, “la cattedrale nel deserto” dell’area commerciale di Norcia, o il centro commerciale Monti della Laga, che raggruppa tutte le attività esistenti ad Accumoli.
I governi che dal 2016 si sono passati “la patata bollente” del post-sisma non hanno saputo innestare, alla parola ricostruzione, una serie di panorami attivi che avrebbero potuto riscrivere le sorti della ricostruzione stessa, a 4 anni, purtroppo, incompiuta. Le risorse collettive del tessuto sociale si sono invece riorganizzate “a gestione separata”, ovvero ciascuno ha fatto da sè, nella maggior parte dei casi. E il nuovo tessuto sociale è attualmente costellato da una serie di fratture occupazionali.

«Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese» queste, nel 1976 le parole del Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Antonio Comelli, di fronte alla distruzione in cui persero la vita 990 persone. Oggi però, a 4 anni di nulla e promesse, dopo le scosse di un altro terremoto, ovvero “il cantiere più grande d’Europa” dell’Italia centrale, il lavoro sembra essere stato disattivato nella sua possibilità di essere un trasformatore sociale. Ai singoli è rimesso ogni sforzo di comprendere come ritornare a far parte. L’esito, specialmente con l’arrivo del Covid-19 è sempre più incerto.
Se è vero che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, come recita l’Articolo 1 della Costituzione italiana, è reale osservare la scelta governativa dell’abbandono come unico “metodo” realmente sostenuto dal governo italiano in questi anni.
Di fronte alle domande di tutto il Paese in relazione alla pandemia da Covid-19, domande su lavoro e pianificazione del futuro, che ancora restano senza risposte, non va dimenticato un fatto: in nessun Dpcm, annunciato dagli inizi della crisi pandemica è mai comparsa una specifica attenzione e cura per le aree fragili, definite noiosamente “aree interne”. Perchè lo è, “un fatto”, ma al contrario, ovvero un “atto mancato”. Soprattutto, mai in nessun Dpcm il governo (minuscolo) si è pre-occupato di vagliare davvero le conseguenze dello scenario post-doppia emergenza ora in essere, fra le terre già in ginocchio dalle scosse del 2016 (Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo). Sembrano in arrivo dei fondi, per il cratere, dal Recovery Fund. Sono in pochi a crederci, sul territorio, dopo le tante promesse.
Se, infine, il “Paese Italia” fosse un’azienda, in virtù della sua cruda e poco realistica pretesa di voler essere una Repubblica fondata sul lavoro (in nero, corrotto, inquinato da mafie e caporalato, basata su contratti al limite della decenza) ebbene, sarebbe certamente un’azienda in perdita, con profonde falle nel proprio sistema.
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